Otto anni fa l'uccisione di Lea Garofalo

Garofalo Lea 500La sua vita è finita a 35 anni il 24 novembre 2009 per mano dell'ex compagno, un capo 'ndrangheta che non aveva mai accettato la sua ribellione ad una vita sottomessa al clan. Così il ministero dell'Interno, sul suo sito, ricorda Lea Garofalo, sparita a Milano, dove si era recata con la figlia Denise. Le indagini accerteranno il 24 novembre 2009 la donna sparì e quella fu anche la data del suo omicidio, il cui mandante fu riconosciuto nell'ex compagno Carlo Cosco, che negli anni precedenti era diventato un esponente di rilevo della 'ndrangheta a Milano. Il corpo di Lea, portato a San Fruttuoso, un quartiere di Monza, venne dato alle fiamme per tre giorni fino alla completa distruzione.

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"La colpa di Lea, agli occhi di Cosco - ricostruisce il Viminale - fu quella di non essersi sottomessa ad una vita regolata dai dettami delle famiglie 'ndranghetiste e di aver preteso un distacco, fuggendo insieme alla figlia lontano da Milano, la città dove si era trasferita in giovane età insieme a Cosco, e dalla sua terra d'origine, Petilia Policastro in provincia di Crotone, alla ricerca di una nuova possibilità, quella di vivere con la figlia una vita normale e nella legalità". "Questa pretesa non gli fu mai perdonata e, anzi, fu considerata dall'ex compagno e padre di sua figlia - si ricostruisce sul sito - un affronto inconcepibile, che ne decretò la condanna a morte. Diversi furono, infatti, nel tempo i tentativi da parte di Cosco di ucciderla, attraverso dei sicari. Tentativi che, infine, si concretizzarono nel novembre del 2009, quando Lea e la figlia furono attratte nel capoluogo lombardo in una trappola ordita proprio dal Cosco, che finse una momentanea riappacificazione in nome del bene della figlia". Lea Garofalo è considerata, dunque, un simbolo del coraggio di una donna che ha perso la vita per la verità. E' stata uccisa non solo perché aveva collaborato con la giustizia, rivelando in diversi frangenti i retroscena della vita 'ndranghetista di cui era stata testimone, facendo luce sulle faide interne tra la famiglia Garofalo e gli omicidi di carattere mafioso avvenuti alla fine degli anni novanta a Milano, ma anche perché come donna si era ribellata agli uomini del clan, non cedendo, pur essendo cresciuta in un ambiente mafioso, alla tacita richiesta di corresponsabilità omertosa. Non si è prestata, ad esempio, a fare da collegamento fra gli uomini della cosca latitanti o in carcere e i membri dell'organizzazione ancora liberi, spezzando il tradizionale schema di tutela famigliare.